Decima puntata di “Liberi Tutti”
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LASCIATE IN PACE QUELL’OMOFOBA
Trovo sempre incredibile leggere notizie come queste e trovarmi a pensare che sì, la grafica omofoba ha ragione e bisogna lasciarla in pace.
Non frequento le barricate degli attivisti quindi non mi trovo catapultato dall’altra parte, ma restando giornalisticamente alla finestra vedo sempre il buon senso cedere il passo al fanatismo e mi preoccupa parecchio.
Riavvolgiamo il nastro: la Corte Suprema è chiamata a decidere sul ricorso presentato da una disegnatrice grafica che intende avviare un'attività online per la celebrazione di matrimoni si rifiuta di lavorare con coppie dello stesso sesso. La ricorrente, Lorie Smith, titolare della 303 Creative, sostiene di non avere ancora lanciato la propria attività perché teme di violare la legge del Colorado, che a suo giudizio le imporrebbe di agire contrariamente alle proprie convinzioni.
"Se un cliente identificato come gay le chiede la grafica del suo sito per un rifugio per animali o per promuovere un'organizzazione che aiuta bambini disabili è più che contenta di aiutarlo", hanno detto i legali della donna. "Ma Smith rifiuta ogni richiesta di creare contenuti che contraddicono la verità della Bibbia o promuovono il concetto che il matrimonio non è solo fra un uomo e una donna", hanno aggiunto.
Ha ragione? Per me sì. Bisogna sempre tutelare il principio della libertà d'espressione, se non scade nella minaccia o nell’insulto, non può essere sottoposta a censura o a controllo. Da nessuno e per nessun motivo.
Si è liberi di pensare e scegliere liberamente a chi offrire i propri servizi creativi, lavorativi, artistici. Si può fare senza che nessuno possa essere neppure sfiorato dall'idea di poterlo impedire. Sostenere il contrario è un danno per chiunque. Se io fossi un web designer e Pro-Vita venisse da me, non potrei rifiutarli sulla base del fatto che sono un gruppo di fanatici? Può un web designer gay e ateo scegliere di non lavorare per la Chiesa cattolica, o per legge sarebbe costretto ad assumere un cliente che detesta? Se sono ebreo, sono costretto a disegnare una torta di compleanno con la faccia di Hitler e le svastiche sopra?
Ecco, avrete risposto quasi certamente: no. Le convinzioni religiose di chi si rifiuta di prestare un servizio privato a una coppia gay non sono un fenomeno improvviso. È un fondamentalismo che ha radici profonde e sappiamo che ha condannato al silenzio e alla clandestinità milioni di persone. L'opposizione poi al matrimonio egualitario è stata un pilastro incontrastato di tutte le principali religioni del mondo, per secoli. E lo è ancora per la Chiesa Cattolica. Tuttavia non è pensabile costringere un privato lavoratore a elargire un servizio che va contro la sua religione.
“Se sei contrario al matrimonio tra persone dello stesso sesso, non sposarti”. È uno di quegli slogan mondiali che ci ripetiamo da decenni, così banale, così vero che ce lo ritroviamo nelle dediche in Uniposca sulle Smemoranda dei liceali. Ed è questo il movimento per i diritti civili un marchio di fabbrica: la libertà. Il pasticcere che si rifiuta di fare torte per i matrimonio, la web designer che dice no hai siti Lgbt friendly sono dalla parte sbagliata della storia, antagonisti di una guerra (anche perduta: ma è un dettaglio troppo doloroso per loro per ammetterlo). Basterebbe dire, grazie mi rivolgo a qualcun altro. Vinciamo tutti quando tutti siamo liberi. Il problema è che alcuni di noi, purtroppo non riescono a capirlo.
Una strategia che funziona tra gli omotransfobici è quella di far credere che gli intolleranti siano le persone Lgbt. Ogni tanto, scorrendo social come Tik Tok mi faccio accarezzare anche io da questo pensiero ma è un pensiero, poi passa. Eccezione fatta per qualche attivista performativo, in realtà le persone Lgbt sono disposte a tollerare quelli a cui non piacciono. Disposti a tollerare le loro chiese e il loro sdegno. Ciò che non si può proprio tollerare è lo status quo. Finché non saranno uguali di fronte alla legge, finché la politica continuerà a impegnarsi per negare la piena parità, lotteranno. Raggiunta la piena parità il movimento Lgbt non si impegnerà per impedire il matrimonio agli eterosessuali. Non ha alcun intenzione di bloccare le adozioni. Resterà vigile per proteggere i diritti di chiunque. Gli etero saranno ancora liberi di disapprovare il matrimonio egualitario - e i preti liberi di rifiutarsi di officiarli- così come lo sono adesso. Letteralmente non cambierà nulla. Proprio come le persone sono ancora libere di credere che gli ebrei dovrebbero vivere nei ghetti, che ai neri non dovrebbe essere permesso di sedere al bancone dei ristoranti. I Malan del mondo saranno liberi di continuare a credeere che ai gay non essere permesso di sposarsi. L’unica differenza sarà che a loro non sarà più permesso di impedirlo. Con il tempo i fanatici anti-gay saranno costretti ad adattarsi, come gli anti-semiti, i sessisti e i razzisti hanno fatto prima di loro. Ma non potranno pretendere che il governo perseguiti e deformi le vite delle persone lgbt per assecondare il loro bigottismo. Sono i pregiudizi che non devono avere la legge dalla loro parte. I pregiudizi continueranno a rovinare vite, ma saranno le loro. Continueranno a cuocere in quell’odio a fuoco lento finché non diventeranno motivo di imbarazzo per i loro figli e i loro nipoti. Perché sono dalla parte sbagliata della storia. L’unica domanda è quanto tempo e quanti soldi questi cristiani bigotti hanno intenzione di buttare tra adesso e il futuro che è già qui.
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E qui passo alla seconda parte della notizia, che è ancora più interessante che non ho letto da nessuna parte e lo scrivo qui, gratis, ringraziatemi: dietro tutti questi ricorsi si nascondono eserciti di legali cristiani statunitensi coordinati che usano argomenti come la “libertà di parola” per destabilizzare i diritti già acquisiti.
È l’ombra lunga di ADF International, organizzazione internazionale che sostiene le cause legali per «il diritto delle persone a vivere liberamente la loro fede». Classificata come “gruppo d’odio anti-lgbt” dall’istituto di ricerca Southern Poverty Law Center (SPLC), il think tank con sede in Alabama che da anni monitora le dinamiche dell’odio razziale e social. Per sostenere tutte queste spese, in tutti i continenti servono soldi. E i soldi arriverebbero proprio dall’America inseguendo una trama oscura che minaccia i diritti e libertà conquistate. Open Democracy aveva già raccontato come le organizzazioni statunitensi della destra cristiana, alcune delle quali con stretti legami con l’ex amministrazione Trump, abbiano speso complessivamente 280 milioni di fondi non tracciati per finanziare campagne contro i diritti delle donne e degli appartenenti alla comunità LGBT, in tutti e cinque i continenti.
Il rapporto annuale 2019 di ADF International afferma di aver ottenuto “18 vittorie” alla CEDU dal 2010, anche se non ha fornito dettagli sui casi specifici.
Il gruppo afferma anche di aver sostenuto con successo i suoi alleati in Norvegia per difendere un medico che si è rifiutato di fornire alle donne IUD (cioé la spirale contraccettiva) a causa delle sue convinzioni religiose.
Non solo. Nel rapporto si legge che è intervenuta anche alla CEDU per difendere il divieto dell’Italia a matrimonio egualitario e unioni civili.
In Emilia Romagna 1 persona su 5 ha subito aggressioni.
Una persona su cinque ha dichiarato di aver subito aggressioni fisiche; una su due di aver ricevuto minacce o insulti e quasi tre su quattro sono state calunniate o derise per il loro orientamento sessuale o identità di genere. La ricerca, oggetto di dibattito, si è svolta tra il 15 luglio e il 9 ottobre attraverso un questionario disponibile sul sito Parità della Regione, diffuso in collaborazione con le associazioni LGBTQI + dell'Emilia-Romagna. E rientra nell'ambito di un più ampio progetto che la Regione ha avviato nel 2021 in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata (FISPPA) dell'Università degli Studi di Padova. Sono stati 1.125 i questionari raccolti, di cui 1.054 ritenuti validi (93,6%). Di questi: il 98,2% da persone di nazionalità italiana, l'88% residenti in Emilia-Romagna e per la quasi totalità dei casi (99,2%) domiciliati nella nostra regione. Dei 1.054 questionari validi, il 47% è stato compilato da uomini (l'87,7% dei quali si definisce gay, l'8,1% bisessuale , mentre il 4,1% dichiara altre autodefinizioni); il 38,7 % da donne (il 56,7% delle quali si dichiara lesbica, il 25,6% bisessuali, mentre la percentuale che opta per altre definizioni è del 17,2%). Il 14,3% dei questionari validi raccolti fa riferimento a persone che si definiscono trans/non binarie.
✒️Scritture incrociate
Andrea Bajani e Michele Bravi, staffetta col dolore pagina dopo pagina
Illustrazione di Antonio Pronostico
Hanno raccontato la vergogna, la solitudine, la sofferenza. Nei libri e con la musica. Poi si sono incontrati. E qui i due autori spiegano il potere della condivisione
Uno scrittore e un cantante. Uno nato nel 1975, l’altro nel 1994. All’apparenza così diversi e invece a ben guardare complementari, speculari, insieme perfetti.
Non è questo un dialogo fra generazioni a confronto. Ma tra persone che si incontrano lì dove tutto «è rotto» e innominabile. Raccontano il dolore, o forse meglio la vita, così com’è. Fatta di stanze senza luce, di intimità, voli e passi incerti su sentieri a precipizio. Questo dialogo è un viaggio in un labirinto dove il filo ha la forma di “Un bene al mondo” di Andrea Bajani, che Feltrinelli ripubblica a distanza di sette anni e che Michele Bravi ha inserito nel suo tour “La geografia del buio” (dall’album certificato Disco d’oro) e letto in audiolibro su Storytel.
«Ci siamo incontrati sul silenzio», dirà Bajani durante questo colloquio che somiglia più a un minuetto di frasi a metà, pause, pensieri lunghi. Un concerto a due voci dove la risposta di uno chiude con la frase dell’altro, difficile da interrompere. Quello che colpisce in entrambi è lo sguardo. Chi ha provato un grande dolore nella propria vita lo riconosce. È come uno strappo negli occhi: l’orgoglio e la fatica di averlo affrontato, spesso la vergogna di non volerlo esibire. «Accarezzare il dolore», come fa il bambino nella storia di Bajani è un modo per attraversarlo, «togliersi la vergogna». Lasciarsi portare dove la vita ti porta per prendere finalmente «possesso del proprio nome».
“Un bene al mondo” viene ripubblicato. Cosa rappresenta questo libro per voi?
Andrea Bajani: «Non sapevo quello che facevo quando lo scrivevo, questo è già un indizio. Pensiamo sempre che “dobbiamo saper fare le cose” e poi ci rendiamo conto che, forse, nell’arte, meno sai fare meglio è. Meno hai il controllo e più sarai sbalordito di quello che hai trovato. Questo libro è nato da un fallimento. Da tempo provavo a dire di me, a scrivermi. Sono venute fuori delle poesie. Le avevo mandate all’editore che si aspettava un romanzo e in coda alla mail avevo scritto: non so esattamente cosa sono queste cose che vi mando, forse sono solo il tentativo di far alzare il culo dalla sedia al mio dolore. È stato come spalancare una porta magica. Subito dopo ho iniziato a scrivere. Su questo libro ho pianto ogni singola riga, credo che sia il più bagnato di lacrime che abbia scritto. Oggi mi rendo conto che grazie a questo libro mi sono tolto la vergogna. Togliersi la vergogna vuol dire uscire fuori e dire: sapete che c’è? Ho un dolore e ci faccio di tutto. Se non mi fossi tolto la vergogna -cosa che auguro a tutto il mondo- non avrei mai potuto più scrivere una riga e soprattutto non avrei mai potuto prendere possesso del mio nome. E poi questo libro cade in un’epoca diversa. Nel 2016 la confidenza pubblica con il dolore era una faccenda privata. All’epoca il dolore era come un alieno. Non si accettava. Oggi c’è stata un’esplosione di dolore devastante tra pandemia e guerra. Vivo negli Usa dove i campus sono pieni di studenti sotto antidepressivi, il dolore ha esondato. È fuori».
Michele Bravi: «“Un bene al mondo” ha la forza che solo le favole possono avere. La favola ha il pregio di farti percepire i mondi sottili, quelli che stanno sotto le superfici, ben nascosti. Per me è difficile pensare che quella è la storia di Andrea, quando la leggo è anche la mia storia. È stato fatto quel passaggio interiore per cui una cosa così particolare e specifica è diventata universale. E quando questo avviene con il linguaggio della favola, il racconto del mondo sottile è ancora più esatto: l’immagine di un dolore che si porta a spasso come un cane al guinzaglio. Per me, questo libro è stato uno spunto enorme quando scrivevo “La geografia del buio”. Racconta esattamente che cosa vuol dire trovare una geografia nelle cose. Il dolore ti aspetta sempre in un punto preciso. Ha un posto, una concretezza geografica e l’astrazione che viene fatta per me è di una poesia altissima. È una metafora talmente tanto grande, profonda che è letteratura: quando si riesce a lavorare ai bordi di una cicatrice e trasformare in poesia una cosa che altrimenti rimarrebbe indicibile. Infatti, ho legato questo libro anche alla mia produzione musicale. Involontariamente, parla di me».
A. B.: «Togliersi la vergogna riconnette al genere umano. Il mio non era solo un pianto personale. Era un pianto originario. È un po’ come se fosse una staffetta con passaggio di testimone. Come se ognuno avesse una piccola bandierina del dolore: se uno casca, l’altro la riprende e la porta avanti. Un po’ come ha fatto Michele con un gesto di grande umanità. È il canto dell’uomo che prova a dire quanto è difficile a volte vivere e quanto per questa stessa ragione è così bello, così spaventoso, così affascinante».
La scrittura è anche relazione. Per voi cosa altro rappresenta?
M.B.: «Premetto che quando ho iniziato a scrivere “La geografia del buio” per concretizzare una parentesi umana difficilissima, ricevetti un messaggio di Bajani: la musica non salva da niente, però ti permette di disegnare il labirinto. È stata una svolta nel modo di vivere la scrittura, nel mio caso musicale. Un atto di traduzione del reale. Non è più la vita vera, sono parole, sono inchiostro che si posano sulla pagina, quella cosa lì crea una mappa, io l’ho chiamata “La geografia del buio”. Questa mappa racconta un labirinto che non per forza porta alla via d’uscita però mette in evidenza e analizza un percorso. Per me questo vuol dire scrivere: dare un posto alle cose. C’è un libro stupendo che si chiama “Diario di un dolore” di C. S. Lewis, dove lui racconta quanto impatta la morte della moglie nella sua vita. Scrive cosa succede quando si elabora un lutto. E lui chiude il libro dicendo: «Con questo libro speravo di creare una mappa dell’afflizione». Leggendolo mi sono reso conto che quando si parla di dolore non si può raccontare uno stato, si deve raccontare un processo. Bisogna raccontare una storia. È questa la consapevolezza della scrittura: cristallizzare un momento per disegnare il labirinto».
A. B.: «Pensiamo sempre che il labirinto è il posto dove sta il Minotauro. Poi ci sono Teseo, Arianna, il filo. Ma forse bisogna capovolgere la prospettiva. Forse bisogna lasciare uscire fuori il Minotauro e non considerare tutto ciò che non conosciamo o fa paura come nemico. Scrivere vuol dire anche disegnare il labirinto per il Minotauro. Quando scrivo e rileggo quello che ho scritto rimango sempre un po’ sbalordito. Come se fossero le parole a dire a te che cosa stavi provando. La scrittura ha questa cosa magica: come se tu avessi qualcosa di liquido dentro e lei ti offrisse dei contenitori per vederlo, finalmente. Pensi di aver finito e invece qualcosa riprende a grattare dentro, quindi devi continuare a scrivere».
M.B.: «Tu, Andrea, mi avevi consigliato di leggere “Fisica della malinconia” di Georgi Gospodinov, che sfrutta la figura del Minotauro per far capire un po’ che cosa vuol dire “essere” scrittore, non “fare” lo scrittore. Una metafora stupenda sul Minotauro che riflette quanto effettivamente l’astrazione del reale sia più umana del reale stesso, perché serve una figura bestiale per raccontare l’umanità. Cioè secondo lui il Minotauro è la figura più umana mai nata dalla mente dell’uomo perché non è solo umano ma anche bestia. Chi scrive è come un Minotauro perché entra nel labirinto, chiama le altre persone, cattura le altre storie, le restituisce agli altri. No?»
A.B.: «Totalmente. Avevo suggerito a Michele questo libro perché parla di questa solitudine del Minotauro profonda. Cibarsi di umanità ma anche essere umanità. Pensiamo di sapere cosa vuol dire essere umani e invece siamo anche animali».
Continua qui Andrea Bajani e Michele Bravi, staffetta col dolore pagina dopo pagina - L'Espresso (repubblica.it)
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